Arriva per la casa editrice Fanucci il primo libro della "Trilogia" di James Dashner
dai tratti inquietanti e fantascientifici
da cui sara' tratto un "film" diretto dal regista di Twilight
gia' questo dovrebbe consacrarne le sue potenzialita' ma se non siete convinti
continuate a leggere...
di
James Dashner
Editore: Fanucci - Collana Teens International -
Pubblicazione: 1 giugno 2011
384 pag.
Prezzo: 16,00 euro
UN GRUPPO DI RAGAZZI SI RITROVA ALL'IMPROVVISO IN UN'ALTRA REALTA'
A CUI DOVRANNO PRESTO ADEGUARSI
MA UN GIORNO QUALCOSA CAMBIA E LE POCHE CERTEZZE CHE HANNO VACILLANO
DOVRANNO COMPIERE UNA SCELTA...
“James Dashner ha scritto romanzi con cui si è piazzato ai vertici della narrativa per ragazzi contemporanea. Con un sacco di duro lavoro e un vasto immaginario, è passato dall’essere uno studente universitario desideroso e inquieto ad autore professionista a tempo pieno”
Desert News
Trama:
Quando Thomas si sveglia, le porte dell’ascensore in cui si trova si aprono in un modo che non conosce. Non ricorda come ci sia arrivato, né alcun particolare del suo passato, a eccezione del proprio nome di battesimo. Con lui ci sono altri ragazzi, tutti nelle sue stesse condizioni, che gli danno il benvenuto nella Radura, un ampio spazio limitato da mura di pietra, che non lasciano filtrare neanche la luce del sole. L’unica certezza dei ragazzi è che ogni mattina le porte di pietra all’inizio del gigantesco Labirinto che li circonda vengono aperte, per poi chiudersi di notte. Ben presto i ragazzi elaborano l’organizzazione di una società ben ordinata e disciplinata dai Custodi, nella quale si svolgono riunioni dei consigli e vigono regole rigorose per mantenere l’ordine. Ogni trenta giorni qualcuno si aggiunge a loro dopo essersi risvegliato nell’ascensore. Il mistero si infittisce un giorno quando – senza che nessuno se lo aspettasse – arriva una ragazza. È la prima donna che abbia mai fatto la propria comparsa in quel mondo, ed è il messaggio che porta con sé a stupire, più della sua stessa presenza. Un messaggio che non lascia alternative. Ma in assenza di altri mezzi visibili di fuga, il Labirinto sembra essere l’unica speranza del gruppo…o forse potrebbe rivelarsi una trappola da cui è impossibile uscire.
L'autore:
James Dashner è nato e cresciuto in Georgia, ma ora vive nello Utah con la moglie e quattro figli. Dopo diversi anni di lavoro nella finanza, ora è uno scrittore a tempo pieno. Oltre a Il labirinto, romanzo d’apertura di una trilogia di successo, ha scritto la saga di Jimmy Fincher e la trilogia Realtà 13.
TRAILER in inglese:
La Casa Editrice ha messo gentilmente a disposizione il primo capitolo:
1
Cominciò la sua nuova vita tirandosi in piedi, circondato da un buio freddo e da un’aria viziata, che sapeva di polvere.
Udì un rumore sferragliante, metallico. Un fremito violento scosse il pavimento sotto i suoi piedi. Il movimento improvviso lo fece cadere. Poi si trascinò all’indietro, a gattoni, con la fronte imperlata di sudore nonostante l’aria fredda. Batté la schiena contro una parete di metallo duro contro cui scivolò fino a incontrare l’angolo della stanza. Si lasciò cadere sul pavimento e tirò le gambe al petto, stringendole forte, nella speranza che gli occhi si abituassero presto all’oscurità.
Con un altro scossone, la stanza salì di botto verso l’alto, come fosse un vecchio ascensore nel pozzo di una miniera.
Suoni stridenti di catene e pulegge echeggiarono nella stanza, come macchinari di una vecchia acciaieria, rimbombando tra le pareti con un cupo gemito metallico.
L’ascensore buio salì, oscillando avanti e indietro, rivoltando lo stomaco ormai inacidito dalla nausea del ragazzo.
Poi si sentì pervadere i sensi da un odore di nafta bruciata che lo fece stare anche peggio. Voleva piangere, ma non trovava lacrime. Riusciva solo a starsene seduto lì, da solo, in attesa.
Mi chiamo Thomas, pensò.
Quella... quella era l’unica cosa che riuscisse a ricordare riguardo alla sua vita.
Non capiva come potesse essere possibile. La sua mente funzionava senza problemi e stava cercando di
fare supposizioni sul luogo e sulla condizione in cui si trovava. I suoi pensieri furono inondati dalla consapevolezza di fatti, immagini, ricordi e dettagli che riguardavano il mondo e il suo funzionamento. Si figurò la neve sui rami degli alberi. Una corsa lungo una strada coperta di foglie. Lui che mangiava un hamburger. La luna che illuminava pallida un campo erboso. Nuotare in un lago. Una piazza cittadina trafficata e popolata da centinaia di persone affaccendate.
Tuttavia, non sapeva da dove venisse o come fosse finito in quell’ascensore buio, o chi fossero i suoi genitori.
Non sapeva neanche quale fosse il suo cognome. Nella sua mente guizzò una serie di immagini di persone, ma erano irriconoscibili, i volti sostituiti da inquietanti macchie di colore. Non riusciva a pensare a una sola persona conosciuta o a ricordare una conversazione.
La stanza stava proseguendo la sua oscillante ascesa e Thomas ormai non si accorgeva più del continuo sbatacchiare delle catene che lo stavano portando in alto.
Passò molto tempo. I minuti divennero ore, anche se era impossibile dirlo con certezza, perché ogni secondo pareva durare in eterno. No, invece. Lui sapeva che le cose non stavano così: a naso poteva dire di essere in movimento al massimo da una mezz’ora.
Era strano, ma sentì che la sua paura veniva spazzata via di colpo, come uno sciame di moscerini portato via dal vento, e che veniva sostituita da un’intensa curiosità.
Voleva sapere dove si trovasse e cosa stesse accadendo.
Con un cigolio e poi un tonfo sordo, la stanza smise di salire. Il cambiamento improvviso sbalzò Thomas dalla
sua posizione accucciata e lo scagliò dall’altra parte della stanza, sul pavimento duro. Si alzò in piedi annaspando e si accorse che la stanza stava oscillando sempre meno, fino a fermarsi. Calò un grande silenzio.
Passò un minuto. Ne passarono due. Thomas guardò in tutte le direzioni, ma vide solo buio. Tastò di nuovo le pareti, in cerca di una via d’uscita. Ma non trovò nulla, solo metallo freddo. Brontolò per la frustrazione e l’eco del suo gemito si diffuse nell’aria, come un funesto lamento di morte. Poi scemò e tornò a regnare il silenzio.
Thomas gridò, chiamò aiuto, batté i pugni contro i muri.
Niente.
Tornò di nuovo nell’angolo, incrociò la braccia e rabbrividì, sentendo risalire la paura. Sentiva un tremito preoccupante nel petto, come se il suo cuore volesse fuggire, uscirgli dal corpo.
«Qualcuno... mi... aiuti!» gridò. Ogni parola gli scorticava la gola.
Un rumore metallico secco, forte, risuonò sopra la sua testa e Thomas inspirò, stupefatto, mentre sollevava lo sguardo. La luce squarciò il soffitto della stanza aprendo una linea dritta, che si allargò davanti agli occhi del ragazzo. Un suono acuto e stridente rivelò una doppia porta scorrevole che qualcuno stava aprendo a forza.
Dopo tutto quel tempo passato al buio, la luce era come una pugnalata negli occhi. Thomas distolse lo sguardo, coprendosi il viso con entrambe le mani.
Sentì dei rumori provenire dall’alto, delle voci. Si sentì strizzare il petto dalla paura.
«Guardate quel pive.»
«Quanti anni ha?»
«Sembra una sploff con una maglietta sopra.»
«Sei tu la sploff, faccia di caspio.»
«Ragazzi, che gran puzza di piedi c’è, laggiù!»
«Spero ti sia piaciuta la gita a senso unico, Fagio.»
«Non c’è il biglietto di ritorno, fratello.»
Thomas fu investito da un’ondata di confusione che si ricoprì subito di bolle di panico. Le voci erano strane e riecheggianti. Alcune delle parole gli erano del tutto estranee, mentre altre erano familiari. Costrinse gli occhi a adattarsi e li strizzò per rivolgere lo sguardo verso la luce e le persone che stavano parlando. All’inizio vide solo delle ombre che si muovevano, ma presto si trasformarono in sagome di corpi; persone chine sul buco nel soffitto, che lo stavano guardando e indicando.
Poi, come se la lente di una macchina fotografica fosse finalmente riuscita a metterli a fuoco, i visi divennero nitidi. Erano ragazzi. Tutti, chi più piccolo, chi più grande.
Thomas non sapeva cosa si fosse aspettato, ma la vista di quei volti lo sconcertò. Erano solo adolescenti.
Ragazzini. Una parte della sua paura svanì, ma non abbastanza da calmare il cuore che batteva ancora all’impazzata.
Qualcuno calò una corda dall’alto, con il capo legato a formare un grosso anello. Thomas esitò, poi vi mise il piede destro e si aggrappò stretto alla corda mentre veniva strattonato verso l’alto. Alcune mani si allungarono verso di lui, tante mani, che lo presero per i vestiti e lo tirarono su. Il mondo parve cominciare a girare, una nebbia turbinante fatta di visi, colori e luci. Una tempesta di emozioni gli torse le budella, rovesciandole e poi stirandole.
Voleva strillare, piangere, vomitare. Il coro di voci si era zittito, ma mentre veniva tirato con violenza oltre il bordo affilato della scatola buia, qualcuno parlò. E Thomas capì che non avrebbe mai dimenticato quelle parole.
«Piacere di conoscerti, pive» disse il ragazzo. «Benvenuto nella Radura.»
Le mani che lo stavano aiutando non smisero di sciamare intorno al suo corpo finché Thomas non fu tirato in piedi e pantaloni e maglietta non gli furono spolverati.
Barcollò un poco, ancora abbagliato dalla luce. Si sentiva consumare dalla curiosità, ma stava ancora troppo male per osservare con attenzione l’ambiente che lo circondava.
Mentre si voltava dappertutto, nel tentativo di esaminare ogni cosa, i suoi nuovi compagni non dissero nulla. Prese a girare su sé stesso, lento, mentre gli altri ragazzini ridacchiavano guardandolo fisso. Alcuni allungarono la mano e lo punzecchiarono con un dito. Dovevano essercene almeno
cinquanta, tutti con i vestiti macchiati e bagnati di sudore, come se si fossero interrotti nel bel mezzo di un lavoro faticoso. Erano di tutte le forme, stature ed etnie, con i capelli di tutte le lunghezze. All’improvviso Thomas ebbe le vertigini. Il suo sguardo guizzava tra i ragazzi e il bizzarro luogo in cui era andato a finire.
Si trovavano in un enorme cortile grande quanto parecchi campi da football e circondato da giganteschi
muri di pietra grigia, coperti in vari punti da folte piante d’edera. I muri dovevano essere alti diversi metri e racchiudevano lo spazio in un quadrato perfetto. Ciascun fianco recava una spaccatura esattamente nel cen-
tro. Si trattava di un’apertura alta quanto i muri stessi, che, da quanto Thomas riusciva a vedere, conduceva ai lunghi corridoi che stavano dietro.
«Guardate il Fagiolino» disse una voce gracchiante.
Thomas non riusciva a vedere da dove arrivasse. «Si spezzerà quel caspio di collo, a furia di guardare casetta nuova.» Diversi ragazzi scoppiarono a ridere.
«Chiudi la fogna, Gally» ribatté una voce più profonda.
Thomas tornò a concentrarsi sulle dozzine di estranei che lo circondavano. Sapeva di avere un’aria allucinata. Si sentiva come se fosse stato drogato. Un ragazzino alto dai capelli biondi e la mascella squadrata lo fiutò, inespressivo.
Un altro, un tipo basso, tozzo e grassoccio, saltellava avanti e indietro con gli occhi spalancati sollevati a guardarlo.
Un ragazzo asiatico grosso e muscoloso incrociò le braccia ed esaminò Thomas, le maniche della camicia aderenti e arrotolate a dare sfoggio dei bicipiti. Un altro dalla pelle scura, lo stesso che gli aveva dato il benvenuto, era accigliato. Infiniti altri lo stavano fissando.
«Dove sono?» domandò Thomas, sorpreso nel sentire la sua voce per la prima volta da che aveva memoria.
Non suonava veramente come la sua. Era più alta di come se la sarebbe immaginata.
«Non in un bel posto.» La frase arrivava dal ragazzo dalla pelle scura. «Ora vedi di darti una calmata.»
«Chi sarà il suo Intendente?» gridò qualcuno in fondo, tra la folla.
«Faccia di caspio, ti ho spiegato» ribatté una voce stridula «che questo è una sploff, quindi si beccherà uno Spalatore, non c’è dubbio.» Il ragazzino ridacchiò come se avesse appena fatto la battuta più divertente della storia.
Ancora una volta, Thomas percepì il peso doloroso della confusione. C’erano talmente tante parole e tanti modi di dire che non avevano senso. Pive. Caspio. Intendente. Spalatore. Saltavano fuori dalle bocche dei ragaz-
zi con una naturalezza tale che pareva fosse strano che lui non capisse. Era come se la perdita della memoria lo avesse deprivato di una parte della sua lingua. Era sconcertante.
Nel suo cuore e nella sua mente stavano lottando emozioni diverse, che cercavano tutte di prendere il sopravvento.
Confusione. Curiosità. Panico. Paura. Tuttavia, tutte quelle sensazioni erano percorse da un cupo sentimento di profonda disperazione, come se il mondo, per lui, fosse finito. Come se fosse stato cancellato dalla sua memoria e rimpiazzato da qualcosa di orrendo. Voleva mettersi a correre e nascondersi da quella gente.
Il ragazzo dalla voce gracchiante stava parlando.
«...Neanche tanto così. Ci scommetto il fegato.» Thomas non riuscì neanche quella volta a vederlo in viso.
«Ho detto di tenere chiuse quelle fogne!» sbraitò il ragazzo nero. «Continuate a parlare a vanvera e la prossima pausa verrà dimezzata!»
Quello doveva essere il capo, si rese conto Thomas. Detestava il modo in cui tutti lo stavano fissando come rincretiniti e si concentrò sull’esaminare il luogo che il ragazzo aveva chiamato la Radura.
La pavimentazione del cortile sembrava fatta di enormi blocchi di pietra, molti dei quali si erano crepati e ora erano riempiti da erbacce e sterpi selvatici. Un edificio di legno strano e mezzo diroccato, accanto a uno degli angoli della piazza, contrastava violentemente con la pietra grigia. Lo circondava qualche albero dalle radici affondate nel pavimento di roccia, simili a mani nodose in cerca di cibo. Un altro angolo del recinto era occupato dagli orti: dal punto in cui stava, Thomas vide mais, pomodori e alberi da frutto.
Dall’altra parte del cortile c’erano delle recinzioni di legno con pecore, maiali e mucche. L’ultimo angolo, invece, era occupato da un ampio boschetto, ma gli alberi più vicini sembravano rovinati e prossimi a morire. Il
cielo era azzurro e privo di nubi, ma Thomas non vide alcuna traccia del sole, nonostante fosse una bella giornata.
Le ombre striscianti che partivano dai muri non rivelavano che ora fosse o in che posizione si trovassero.
Poteva essere mattina presto oppure pomeriggio.
Mentre Thomas inspirava profondamente, cercando di calmarsi, fu bombardato da una mescolanza di odori diversi. Terra vangata di fresco, letame, pino selvatico, qualcosa di marcio e qualcosa di dolce. In qualche modo capì che erano odori da fattoria.
Thomas tornò a guardare i suoi catturatori, sentendosi goffo ma con un desiderio disperato di fare domande.
Catturatori, pensò. E poi, Ma perché mi è venuta in mente quella parola? Passò in rassegna i volti, osservandone ogni espressione, valutandoli. Gli occhi di un ragazzo, infiammati dall’odio, lo raggelarono. Sembrava tanto furioso che Thomas non si sarebbe stupito se quel ragazzo l’avesse aggredito con un coltello. Aveva i capelli neri e quando i loro sguardi si incrociarono, il ragazzo scosse la testa e si voltò, incamminandosi verso un palo di ferro unto con accanto una panca di legno. In cima al palo era appesa una bandiera variopinta e floscia. Non c’era vento che soffiasse per rivelarne il disegno.
Scosso, Thomas rimase a fissare la schiena del ragazzo finché quello non si voltò per sedersi. Allora Thomas distolse svelto lo sguardo.
All’improvviso il capo del gruppo, che aveva forse diciassette anni, fece un passo avanti. Indossava abiti normali: una maglietta nera, jeans, scarpe da tennis, un orologio da polso digitale. Per qualche ragione i vestiti sorpresero Thomas: gli pareva che tutti, piuttosto, dovessero indossare qualcosa di più minaccioso, tipo uniformi da carcerati. Il ragazzo dalla pelle scura aveva capelli cortissimi e un viso ben rasato. Tuttavia, tolta quella perenne espressione imbronciata, in lui non c’era proprio nulla che facesse paura.
«È una lunga storia, pive» disse il ragazzo. «La verrai a sapere un pezzo alla volta. Domani ti faccio fare il Tour. Fino ad allora... cerca di non spaccare niente.» Gli tese una mano. «Sono Alby.» Rimase in attesa. Era chiaro che voleva stringere la mano di Thomas.
Thomas si rifiutò di farlo. Qualche forma di istinto prese il sopravvento sulle sue azioni e, senza dire nulla, si incamminò verso un albero poco distante. Si lasciò cadere seduto, con la schiena appoggiata alla corteccia ruvida. Il panico gli salì nuovamente alla gola. Fu quasi troppo, quasi insopportabile. Però fece un respiro profondo e si costrinse ad accettare la situazione. Assecondali e basta, pensò. Se cedi alla paura, non ci capirai niente.
«Allora raccontami,» gridò Thomas, lottando per mantenere un tono calmo «raccontami questa lunga
storia.»
Alby lanciò un’occhiata agli amici più vicini a lui e roteò gli occhi. Thomas studiò di nuovo la folla. La sua prima stima era stata più o meno corretta. Probabilmente c’erano cinquanta o sessanta persone, da ragazzi nella prima adolescenza a quelli più adulti come Alby, che sembrava essere uno dei più grandi. In quel momento, con un sobbalzo che gli diede la nausea, Thomas si accorse di non avere idea di quanti anni avesse
lui. Il suo cuore ebbe un tuffo di disperazione a quel pensiero. Era smarrito al punto di non conoscere nemmeno la sua età.
«Veramente» disse, senza più cercare di ostentare coraggio.
«Dove sono?» Alby andò da lui e si sedette a gambe incrociate. La folla di ragazzi lo seguì e gli si ammassò dietro. C’erano teste che spuntavano dappertutto, ragazzini che si sporgevano da ogni parte per guardarlo meglio.
«Se non hai fifa» disse Alby «non sei umano. Comportati in modo diverso e ti butto dalla Scarpata. Vorrebbe dire che sei fuori.
«La Scarpata?» domandò Thomas. Il sangue abbandonò il suo volto all’improvviso.
«Ma vaffancaspio» disse Alby, strofinandosi gli occhi.
«Non c’è modo di cominciare queste conversazioni, ci arrivi? I pive come te noi non li ammazziamo, te
lo prometto. Cerca solo di evitare di farti ammazzare, sopravvivi, quel che è.»
Si interruppe. Thomas si rese conto che, quando aveva ascoltato l’ultima frase, doveva essere impallidito anche più di prima.
«Amico» disse Alby, poi si passò le mani tra i capelli corti, facendo un sospiro rumoroso. «Non sono bravo in queste cose... sei il primo Fagiolino da quando Nick è stato ucciso.»
Gli occhi di Thomas si spalancarono. Un altro ragazzo si fece avanti e diede uno schiaffo scherzoso sulla testa di Alby. «Aspetta il cacchio di Tour, Alby» disse, con una voce dall’accento strano, pesante. «Gli viene un cavolo di infarto, a ’sto qua, non ne sa ancora niente.» Si chinò e tese la mano a Thomas. «Io sono Newt, Fagio, e saremmo tutti di buonumore se perdonassi questo nostro nuovo capo testadisploff qui.»
Thomas allungò il braccio e strinse la mano del ragazzo, che sembrava molto più simpatico di Alby.
Newt era anche più alto di lui, ma sembrava più piccolo di uno o due anni. Aveva i capelli biondi e lunghi, che gli scendevano sulla maglietta come una cascata. Le sue braccia erano muscolose, con le vene sporgenti.
«Ma fottiti, faccia di sploff» grugnì Alby, dando uno strattone a Newt per tirarlo a sedere accanto a sé. «Almeno le mie parole le capisce a metà.» Si udì qualche risata sparsa, poi tutti si radunarono dietro ad Alby e Newt, stringendosi ancora di più, ansiosi di sentire cosa avrebbero detto.
Alby allargò le mani, con i palmi rivolti in alto. «Questo posto si chiama la Radura, va bene? È il posto dove
viviamo, mangiamo, dormiamo. Ci chiamiamo i Radurai.
È tutto ciò che...»
«Chi mi ha mandato qui?» chiese Thomas. Finalmente la paura aveva ceduto il posto alla rabbia. «Come...» Ma la mano di Alby guizzò prima che potesse finire, strattonando Thomas per la maglietta e facendolo chinare in avanti, sulle ginocchia. «Alzati, pive, alzati!» Alby si alzò, trascinando Thomas con sé.
Infine Thomas riuscì a mettersi in piedi, sotto di lui, di nuovo terrorizzato. Indietreggiò contro l’albero, cercando di sfuggire ad Alby, che invece gli rimase appiccicato, faccia a faccia.
«Niente interruzioni, ragazzino!» gridò Alby. «Babbeo, se ti dicessimo tutto schiatteresti di colpo, subito dopo esserti sploffato nei pantaloni. Gli Insaccatori ti trascinerebbero via e allora non ci serviresti più, giusto?»
«Non so nemmeno di che parli» rispose Thomas lento, stupefatto di sentire la sua voce suonare tanto ferma.
Newt allungò un braccio e prese Alby per le spalle.
«Alby, finiscila un attimo. Più che aiutare stai facendo un danno, sai?»
Alby lasciò andare la maglietta di Thomas e fece un passo indietro, col petto che si sollevava per il respiro accelerato.
«Non ho tempo di fare il simpatico, Fagiolino.
La vecchia vita è finita, è iniziata quella nuova. Impara le regole in fretta, ascolta e non parlare. Ci arrivi?»
Thomas lanciò un’occhiata a Newt, sperando che lo aiutasse. Dentro di lui tutto si torceva e gli faceva male.
Le lacrime che non erano ancora sgorgate gli fecero bruciare gli occhi.
Newt annuì. «Ci arrivi, vero, Fagio?» Annuì di nuovo.
Thomas stava fumando di rabbia. Avrebbe voluto prendere a pugni qualcuno. Ma disse semplicemente: «Sì.»
«Bene così» disse Alby. «Il Primo Giorno. Ecco cos’è oggi, per te, pive. Tra poco sarà sera, presto rientreranno i Velocisti. Oggi la Scatola è arrivata tardi, non c’è tempo
per il Tour. Domani mattina, subito dopo la sveglia.» Si rivolse a Newt. «Trovagli un letto, fallo dormire.»
«Bene così» disse Newt.
Gli occhi di Alby tornarono a Thomas e si assottigliarono.
«Qualche settimana e sarai felice, pive. Felice e utile.
Nessuno di noi sapeva un tubo, il Primo Giorno, e nemmeno tu. La nuova vita inizia domani.»
Alby si voltò e si fece strada a spintoni tra la folla, poi si diresse verso l’edificio di legno tutto sbilenco che stava nell’angolo. Allora la maggior parte dei ragazzini se ne andò, ciascuno lanciando una lunga occhiata a Thomas prima di allontanarsi.
Thomas incrociò le braccia, chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. La sensazione di vuoto che gli rodeva le viscere fu presto sostituita da una tristezza che gli stringeva il cuore. Era troppo. Dove si trovava? Che posto era quello? Era una specie di prigione? E se sì, perché ce lo avevano mandato, e per quanto tempo ci sarebbe rimasto?
La lingua che parlavano gli altri era strana e sembrava che a nessuno dei ragazzi fregasse qualcosa se lui era vivo o morto. Le lacrime minacciarono di nuovo di riempirgli gli occhi, ma Thomas le ricacciò indietro.
«Che cosa ho fatto?» bisbigliò, senza la vera intenzione di farsi sentire da qualcuno. «Che cosa ho fatto... perché mi hanno mandato qui?»
Newt gli diede una pacca sulla spalla. «Fagio, quello che senti tu l’abbiamo sentito tutti. Tutti abbiamo avuto il nostro Primo Giorno, usciti da quella scatola buia. La situazione è brutta, brutta davvero, e presto per te sarà anche peggio. Ma dopo aver fatto un po’di strada ti troverai a combattere bene e con coraggio. Si vede già che non sei una mammoletta del cacchio.»
«Questo posto è una prigione?» chiese Thomas. Cercò di scavare nell’oscurità dei suoi pensieri, in cerca di una fessura aperta sul suo passato.
«Hai già fatto almeno quattro domande, giusto?» replico'
Newt. «Non ce n’è, di risposte per te. Almeno non adesso. Adesso meglio stare buoni. Accetta il cambiamento. Domani sarà un nuovo giorno.»
Thomas non disse niente, con la testa incassata nelle spalle e gli occhi fissi sul terreno sassoso e crepato. Ai bordi di uno dei blocchi di pietra correva un rampicante dalle foglie piccole e dai minuscoli fiori gialli, che facevano capolino dalla spaccatura come in cerca del sole, che era sparito da tempo dietro agli enormi muri della Radura.
«Chuck è l’ideale per te» disse Newt. «È un grassottello di un minipive, ma a conti fatti è un tipetto simpatico.
Resta qui. Torno.»
Newt non aveva quasi neanche finito la frase quando udirono un grido improvviso e penetrante lacerare l’aria. Alto e stridulo, quell’urlo quasi disumano echeggiò per il cortile coperto di pietra. Tutti i ragazzini presenti si voltarono a guardarne l’origine. Thomas sentì il suo sangue diventare una poltiglia gelida quando si rese conto che quel suono orrendo era arrivato dall’edificio di legno.
Pure Newt era sobbalzato, come stupefatto, la fronte corrugata per la preoccupazione.
«Che caspio» disse. «Ma quei cacchio di Medicali non possono stare con quel ragazzo per dieci minuti senza aver bisogno del mio aiuto?» Scosse la testa e diede un colpetto al piede di Thomas. «Trova Chuckie, digli che deve trovarti da dormire.» Poi si voltò e prese a correre verso la costruzione di legno.
Thomas si lasciò scivolare contro la superficie ruvida del tronco fino a trovarsi di nuovo seduto per terra. Si ritrasse contro la corteccia e chiuse gli occhi, sperando di svegliarsi da quel sogno terrificante.
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